Continua il restauro dell’organo nella basilica dell’Ave Grazia Plena di Torre Annunziata. Il gioiello del 1922 potrebbe tornare a vibrare le sue note nell’area mistica del santuario dal prossimo agosto.

Non voglio scrivere il solito articolo di cronaca per raccontarvi come procede il difficile e lungo lavoro di recupero dell’antico organo polifonico della chiesa della nostra Madonna delle Neve.
Voglio provare a farvi sentire il tenero abbraccio che mi ha stretto il cuore quando ho iniziato a cercare la storia di quel meraviglioso strumento fatto costruire dal parroco don Emilio Lambiase, rettore della Basilica dal 1917 al 1965.

Quel secondo più grande della Campania, realizzato dalla ditta di Cremona “Rotelli”, costò all’epoca 95 mila lira. Sessantacinquemila lire era il prezzo concordato all’inizio, ma la rateizzazione dell’importo lo fece lievitare, arrivando a costare quasi un terzo in più del pattuito.

Lo strumento fu pagato con donazioni fatte alla chiesa dagli allora fiorenti pastai di Torre, come si evince da alcune ricevute di pagamento ritrovate nell’antico archivio della Basilica, e dai signorotti dell’epoca che iniziarono una “gara di solidarietà” per aiutare don Lambiase. In realtà si trattò di una “gara di vanità”, perché i nobili torresi cercavano di primeggiare anche nelle elargizioni, come fossero indice di signorilità e magnanimità.

Lo strumento fu inaugurato il 22 ottobre del 1922, in occasione del centenario del miracoloso salvataggio della città dall’ira funesta del Vesuvio. Cento anni prima la protezione della Madonna della Neve era stata implorata dopo due giorni di convulsa attività vulcanica. Torre Annunziata era avvolta in un’oscurità intensa interrotta da lampi accecanti. Il popolo atterrito portò in processione la Vergine fino a piazza Ernesto Cesaro e lì avvenne il miracolo: l’aria si aprì e un flebile raggio di sole illuminò il volto della nostra Madonna.
Cento anni dopo, la Basilica risuonava di una melodia armoniosa per ringraziare ancora una volta la sua Protettrice dello scampato pericolo.

Affacciato sulla navata centrale come a dominarla, l’organo polifonico si compone di 32 registri su tre manuali e una pedaliera. Ogni registro è formato da 56 canne di zinco per un totale di ben 1792, ognuna delle quali corrisponde ad un suono diverso. Il pilotaggio delle canne era pneumatico: praticamente l’aria veniva introdotta attraverso il movimento di un grosso mantice retrostante l’organo, azionato da una ruota manuale fatta girare da uno dei sacrestani.
Solo verso gli anni ’50 l’azione manuale fu sostituita da un motore elettrico. Attraverso un sistema di pulegge e turbine, l’aria arrivava per condotto al serbatoio principale dell’organo per poi essere distribuita alle canne.

L’organo ha risuonato le sue melodie fino allo spaventoso sisma che si verificò il 23 novembre 1980 e che colpì la Campania centrale e la Basilicata centro-settentrionale. Il terremoto provocò il distaccamento della piattaforma che sorregge l’intero organo dalla facciata della basilica. Il movimento tellurico ne causò la scordatura e il successivo abbandono.

Allo strumento principale sono collegati altri due ingegni: un carillon e un “piccolo organo” posizionati in due piccole stanze che affacciano, rispettivamente, sulla destra e sulla sinistra dell’altare. (Volgendo le spalle al pulpito, è possibile scorgere le finestre degli ambienti alzando lo sguardo verso la parte alta del transetto). Alle due stanze è possibile accedere soltanto dall’esterno della Basilica attraverso dei condotti anch’essi esterni.

Nella stanzetta che da proprio sulla sacra effigie della Madonna della Neve, il piccolo organo è stato verosimilmente preservato dall’incuria e dalla distruzione dagli escrementi degli animali. Heinz Boschert e Vincenzo Marasco, l’ingegnere tedesco e lo studioso oplontino che stanno lavorando al restauro, hanno dovuto lentamente recuperare le parti lignee scavando tra  quello che i piccioni lì hanno lasciato per circa trent’anni. Virtuosamente sono riusciti a rimettere in sesto lo strumento e a salvare circa 250 canne, attualmente spedite in Germania per essere restaurate. La funzione del piccolo organo era quella di riprodurre i suoni acuti (i fischietti per intenderci). Alle canne l’aria arrivava attraverso un piccolo mantice, azionato da condotti di legno rivestiti internamente in pelle, che percorrevano tutta la navata centrale della chiesa passando sopra i cornicioni interni.

La stessa “buona” sorte non è toccata al carillon posizionato a destra dell’altare, che riproduce i suoni delle campane. Quello è andato completamente distrutto e attualmente è stato completamente sostituito con un nuovo carillon elettromeccanico. Ogni canna porta la firma di chi ha lavorato per la realizzazione e di chi si è impegnato in questo magistrale progetto di recupero dell’organo polifonico.

Particolarmente significativi sono alcuni ritrovamenti scoperti nella “stanza segreta dell’organo” che mi preme raccontarvi. Non solo nelle canne maggiori son state ritrovate le ceneri vulcaniche risalenti all’eruzione del 1944 – l’ultima del Vesuvio, avvenuta  tra il 16 e il 29 marzo, che cosparse di ceneri tutto il Meridione – ma anche pezzi di cassette di munizioni e pacchetti di sigarette americane in latta, risalenti alla Seconda Guerra Mondiale.

Non sappiamo come vi siano giunti in lì, ma la cosa certa è che quell’organo non è soltanto un simbolo per la Basilica dell’Ave Gratia Plena, ma è un pozzo di storia cittadina che va recuperato e preservato. Il faticoso e certosino lavoro dell’ingegnere Heinz e del suo fido aiutante Marasco sta riportando in vita un secolo di storia, sepolto dalla cenere dei tempi.

E dopo la parte meccanica, ritorneranno a splendere anche i due gruppi di putti del primo ordine che reggono lo stemma con la data del primo centenario del miracoloso salvataggio della Madonna della Neve. Torneranno a inneggiare la Gloria i due angeli che reggono nella mano destra le trombe divine. Torneranno a cantare la lode al Signore i tre angeli che, nella sommità, dominano l’organo polifonico della nostra Basilica Oplontina!

(Foto di Paolo Borrelli)





 
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