La porta vetrata lasciava intravedere una flebile luce accesa, forse per vigilare su ciò che rimane di quel migliaio di scheletri accatastati poco distanti. In religioso silenzio, per la paura che quel luogo sacro mi incuteva, ho iniziato, uno alla volta, a scendere i gradini di quella scala che ruotava intorno a una colonna.

Le ragnatele che pendevano dal soffitto erano così fitte che, a contatto con la pelle, sembravano tante mani che cercavano di sfiorarmi e, nonostante i buoni propositi, ero decisa ad abbandonare l’idea di scendere fino in fondo. “No! Devo resistere – mi ripetevo spaventata per darmi coraggio – Non avrò un’altra occasione!” Con il manico della torcia a modo di scopa per aprirmi un solco in quelle sottili e impalpabili tele, sono arrivata alla fine della scala col cuore che mi batteva a mille.

E’ bastato un rapido sguardo tutt’intorno per capire che lì, da anni, nessuno era più sceso e che il tempo aveva calato sui quei resti umani un sipario di polvere e dimenticanza. Tutto era spettrale e aumentava la mia paura: una piramide enorme e scomposta di teschi e ossa, cassette vuote una volta contenenti reliquie umane sparse qui e là, fiori sbiaditi dal tempo e …

Ero così spaventata da quella visione funesta che ho smesso di guardare e ho cercato velocemente con lo sguardo solo quello per cui ero andata lì: vedere Maria la sposa.

Mi sono girata lentamente, quasi come se inconsciamente non volevo disturbare nessuno, e immediatamente la mia attenzione è stata attirata da due teche di vetro. La prima era vuota, conteneva soltanto fiori secchi e chincaglierie (credo!) senza valore. L’altra era poco distante e proprio in quella giaceva lo scheletro della fanciulla che ha animato, per decenni, la leggenda più amata della terra oplontina.

Conoscendo la storia e le credenze popolari legate a quella fanciulla, sono stata percorsa da un brivido. L’avevo immaginata diversa quella donna e moglie tanto sfortunata. La teca era piccola e sembrava essere stata costruita proprio per contenere quel corpicino apparentemente di bambina.

Sulle vesti bianchi ancora giacevano fiori, rosari, orecchini, perle e qualche voto, lasciati a imperitura memoria di ciò che aveva rappresentato quello scheletro per il popolo torrese. Nonostante gli anni, il candore della veste era rimasto inalterato: un bianco luccicante che donava alla fanciulla un misterioso senso di pace e tranquillità.

Ho osservato minuziosamente tutto ciò che era lì contenuto e a colpirmi è stata una cosa apparentemente banale, senza riuscire a capirne il perché: sulla parte bassa del vestito, adagiate poco distanti dai piedi di Maria, un paio di scarpe bianche, con la suola di cuoio. Le ho osservate per qualche minuto, per poi scoprire che erano come quelle che ancora oggi indossano le spose per andare all’altare e unirsi ai loro amati mariti. Quelle sarebbero servite a guidare i passi di quell’anima sfortunata nel suo cammino oltre la vita.

Il mio tempo era scaduto. Ho guardato per l’ultima volta quella donna e, da torrese, col cuore che mi ribolliva di paura, le ho affidato il mio desiderio più nascosto e chiesto la sua protezione sulla mia famiglia.

 
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