Vincenzo Montieri, presidente della sezione oplontina dell’ANMIG – Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi di Guerra, di storie da raccontare ne ha tante. Padre di sei figli, gli si illuminano gli occhi quando parla dei suoi tredici nipoti e dei due pronipoti, ma poi lo sguardo si rabbuia al ricordo di quei ventotto lunghissimi mesi di prigionia. Tempi duri nei quali ha dovuto più volte guardare in faccia alla morte e trovare il coraggio di rialzarsi per scrivere una pagina di storia della sua Italia.

Dall’alto dei suoi ottantatré anni è il più giovane dei presidenti ANMIG e, a sentirlo parlare, proprio non li dimostra, considerando il fervore e la passione con cui racconta la sua storia di vita. Mostra con orgoglio la “Croce d’oro al Merito di Guerra” conferitagli dalla Marina Militare nel lontano 1965 e con orgoglio racconta le sue vicissitudini legate alla guerra e alla patria.

Signor Vincenzo quali sono i suoi ricordi legati alla guerra?
“Frequentavo la Scuola Sottufficiali di Marina a Pola quando, a sedici anni, fui catturato e fatto prigioniero dai tedeschi insieme a tanti altri allievi. Fui portato prima a Venezia e poi in Germania, dove trascorsi due mesi a lavorare forzatamente in uno zuccherificio. Ventotto sono stati gli interminabili mesi di prigionia, durante i quali ho sofferto, pianto e sperato”.

Non ha avuto nessuna possibilità per tornare in Italia?
“Un ufficiale delle S.S. tedesche, dopo qualche mese, radunò tutti noi prigionieri e ci chiese di aderire alla “Repubblica di Salò”; in cambio saremmo tornati nel nostro paese nel giro di qualche settimana. Ottenuto un rifiuto generale, per punizione fummo aggregati ad una organizzazione che lavorava in prima linea sui binari dei treni. Da quel momento iniziai a girare tutta la Germania perdendo ogni speranza di tornare a casa”.

Qual è il ricordo più “bello”, mi conceda l’aggettivo, legato a quel periodo?
“Nell’estate del 1944, nell’Arenania, salvai un componente siciliano del battaglione San Marco, episodio che poi mi è valso la croce al merito. Dopo una serie di bombardamenti tedeschi e inglesi,  sentii provenire da un cumulo di macerie dei lamenti. Mi avvicinai e sentii la richiesta di aiuto di un uomo: entrambe le gambe erano state recise dalla deflagrazione di una bomba caduta lì vicino. Mi adoperai immediatamente per liberarlo dalle macerie e dargli i primi soccorsi; lo presi in braccio e lo portai lì dove gli potevano dare assistenza”.

Lo ha più rivisto?
“Purtroppo no, ma per ricevere la medaglia so che hanno dovuto verificare l’autenticità del mio racconto”.

E l’episodio più tragico?
“Questa che le sto per raccontare è una tragedia dai risvolti positivi. Nell’autunno dello stesso anno, sempre nella stessa zona, mentre uscivo per recarmi in campagna, iniziò a suonare la sirena d’allarme che avvisava di un prossimo bombardamento. Mentre cercavo di nascondermi e mettermi in salvo, ho assistito alla scena più raccapricciante della mia vita: una donna che correva al rifugio con in braccio il suo bambino di qualche anno fu decapitata da una scheggia di una bomba caduta lì vicino. Fece pochi passi e cadde giù, proteggendo il bimbo col suo corpo. Mi precipitai, raccolsi il bambino e lo portai al vicino rifugio. Mi tolsero il bambino dalle braccia mentre a me mi urlarono in tedesco: “Qui agli stranieri è proibito entrare!”

Quando tornò in Italia?
Fui rimpatriato nel 1946 dopo numerose peripezie. Giunto a Napoli, utilizzai un camion per arrivare fino a Torre Annunziata; avevo i vestiti sporchi e lacerati e il pantalone era così consumato che addirittura copriva una sola gamba”.

Cosa pensa di tutte le polemiche circa i festeggiamenti per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia?
“Proprio ieri ho avuto una discussione con un giovanotto che affermava convinto l’inutilità di questa ricorrenza. Da combattente, reduce di guerra, ho cercato di fargli capire che nella vita bisogna avere un ideale e portare a termine con coscienza il compito che ci è stato affidato. Io ho dato tanto alla mia Patria perché era il mio ideale e le idee di chi, come me, ha lottato per portare alta la bandiera italiana vanno rispettate”.

(Foto di Paolo Borrelli)

 
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