Sulle alture di Castelmagno, piccolo paesino della Val Grana, nel cuore dell’Occitania, nascosto tra gli alberi si trova la borgata di Narbona, il cui nome originale Arbouna in occitano significa “grande albero”. Un villaggio con case di pietra quasi sovrapposte fra loro, come racconta Nuto Revelli in una citazione nel suo libro “La guerra dei poveri”: “Alle ore 7 appare Narbona, come un muro, un enorme muro a secco. Le case sono una sull’altra, come i dadi nei giochi dei bimbi. Niente strade, ma scale. I tetti non si vedono, tanto le baite sono addossate”.

Non si hanno dati certi sulla nascita del villaggio, ma alcuni cenni storici indicano Narbona come la borgata più abitata della valle. Nel 1755 abitavano la borgata 117 persone, che diventarono 144 nel 1897, per diminuire fino a 98 nel 1932. Gli unici accessi possibile dal paese sottostante erano, il sentiero che saliva dalla frazione Colletto e con circa un’ora e mezza di cammino si raggiungeva Narbona, questo sentiero viene denominato “Sentiero dei morti”, perchè su questo sentiero si accompagnavano a valle i defunti per il loro ultimo viaggio verso il cimitero, oppure passando dalla frazione Campomolino, percorso più difficoltoso e con maggior rischio di valanghe in inverno.

La vita di borgata in queste zone era molto dura, a causa dei luoghi impervi e del terreno arido, suddiviso in terrazzamenti dove si coltivavano segale e patate, utili alla sopravvivenza delle persone e degli animali. Le case costruite una sull’altra, quasi a proteggersi negli inverni più freddi, frutto di un architettura studiata per evitare che le abbondanti nevicate invernali isolassero le famiglie e ci fosse meno neve da spalare fra una casa e l’altra. Tutte le case erano dotate di tre piani, con la stalla nel piano inferiore, l’abitazione nel mezzo e il fienile al piano superiore, in modo da avere maggiore isolamento dal freddo. Nelle lunghe sere, dove non esisteva la televisione, le famiglie si ritrovavano nelle stalle, il luogo più caldo della casa; qui le donne lavoravano a maglia, gli uomini riparavano gli attrezzi o costruivano le scarpe e i bambini giocavano, tutti insieme raccontavano delle storie, rischiarati dai lumi a petrolio o dalle candele.

In questi nidi di case, in un villaggio adagiato ai piedi di un dirupo, in un luogo sicuro dalle valanghe, ci hanno vissuto intere famiglie fino al 1962, quando quelle poche famiglie rimaste decisero di abbandonare il villaggio trasferendosi alcuni nei paesi vicini alcuni migrarono a Torino e intrapresero il lavoro di lustrascarpe alla stazione di Portanuova. In quell’anno il parroco del paese nella sua cronaca parrocchiale scrive cosi:”In estate le famiglie esasperate dalle nevicate e dall’isolamento, non potendo più contare su molte braccia valide, abbandonano la frazione di Narbona”. Da allora inizia il degrado.

 
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