Carmen Pellegrino, autrice del saggio su Matilde Sorrentino nel libro “Non è un paese per donne” racconta il suo approccio alla triste vicenda della mamma oplontina, le emozioni provate, le ansie e le sue riflessioni.

Come è venuta a conoscenza della storia di Matilde Sorrentino?
“Ne avevo sentito anni fa, ma a parlarmene di recente è stato lo scrittore Mario Gelardi, curatore del libro La ferita nel quale c’è uno scritto dedicato a Matilde”.

Perché ha scelto di inserirla nel libro?
“Volevo raccontare una storia dimenticata, relegata ai margini delle cronache, usurata dal tempo, sulla quale si è dispiegato un gigantesco processo di rimozione. Volevo parlare di una di quelle donne (ma qui la questione di genere c’entra ben poco) che non fanno notizia, eppure hanno la forza di smuovere montagne di indifferenza, di sfidare la paura, anche quella più nera, di opporsi a fiumi raggelanti di ingiustizie e soprusi”.

Qual è la cosa che più le ha colpito nella vicenda umana della madre coraggio di Torre Annunziata?
“Forse la determinazione nell’affrontare l’orrore indicibile e le sue conseguenze, aprendosi le porte di un inferno clamoroso, eppure evitabilissimo, se solo fosse stata lasciata meno sola”.

Lei scrive: “Tutti i fatti accaduti, i personaggi, i luoghi sono autentici”. Come è riuscita a ricostruirli?
“Ho avuto modo di leggere le carte processuali, le cronache del tempo, ed è stato come precipitare in un fosso. Difficile poi risalire, difficile trovare una modalità, quale che fosse, per esprimere quell’orrore. Più volte ho pensato di rinunciare, perché a un certo punto mi sentivo coinvolta oltremisura: era come se conoscessi Matilde, me la immaginavo nella sua casa a scrutare le pareti in cerca di una qualche risposta, a interrogare la sua faccia allo specchio, a maciullarsi le unghie per la rabbia repressa, o a ricordarsi di lei ragazza, quando – nella mia testa – cercava il vento fresco nei capelli o s’immaginava un futuro colmo di promesse”.

E aggiunge: “… Ma trasfigurati dalla lente del narratore”. Cosa l’ha spinta a calarsi in una realtà tanto triste e crudele?
“Sulla necessità o meno di raccontare l’orrore esistono pareri diversi e per lo più contrastanti. Dal mio punto di vista si va lacerando sempre di più il rapporto tra le cose e le parole e il compito di chi scrive è anche quello di tentare di ricucire quello strappo, favorendo la conoscenza e non certo l’oblio. E riportando alla luce fatti e persone che in qualche modo formano un flusso di bagliori, lampi di luce che illuminano tutto il resto”.

Qual è di questa vicenda il monito per il lettore?
“Non so se c’è un monito, non lo cerco mai in una storia, piuttosto c’è un senso: fare quello che è giusto fare (nel proprio lavoro, nella vita quotidiana), cercare di non soccombere, non piegarsi alle ingiustizie, ai soprusi, agli abusi, non tacere per quieto vivere, per non crearsi problemi o crearne agli altri … diviene coraggio, quello vero, che molto spesso ha un prezzo altissimo, enorme, a volte letale, pure … pure dà un senso alla vita, quella che non è una tranquilla e comoda persistenza, ma una forma alta di esistenza”.

Secondo lei, oggi, la gente oplontina cosa ricorda di Mamma Matilde?
“Dai riscontri che ho avuto in questi giorni, dalle molte parole di quasi gratitudine, direi che la storia di Matilde contiene in sé il solco aperto di una ferita. Le persone che mi hanno contattato, nei modi più vari, mi hanno ringraziato per averla raccontata, quasi sentendosi liberate di un peso, il peso di non poterne parlare. Ho la sensazione che queste persone desiderino poter fare della vicenda di Matilde una pratica di testimonianza, in grado di sovvertire la nera convinzione che alla criminalità, ai gorghi oscuri della violenza, non si possa resistere.

Di cosa invece, o inoltre, dovrebbe serbarne il ricordo?
“Credo che, al pari di Giancarlo Siani ucciso per i suoi «reati di scrittura», la storia di Matilde Sorrentino è una storia di vicinanza, la storia di una persona che se guardi un po’ più in là te la trovi accanto, nonostante la morte. Figure di uomini e donne pieni di coraggio, le cui storie andrebbero raccontate, dette, conosciute anche per condividere le sorti dei luoghi in cui si vive. Senza nascondere niente sotto il lenzuolo che copre il morto”.

Quali sono le sue personali considerazioni sulla vicenda, sulla gente di Torre e sulla città?
“Torre come tutti i luoghi ha i suoi coni d’ombra, le sue regole oscure, le sue eccezioni. Credo che sia abitata da gente desiderosa di non dimenticare Matilde Sorrentino, Giancarlo Siani, e tutti quelli che ogni giorno combattono, lì dove si trovano, rischiando grosso e scavandosi pozzi di disperazione ingiusta e inaccettabile … pure … pure vanno avanti per cercare di dare un futuro dal volto nuovo alla propria terra. Credo che questa gente sia sinceramente stanca di chi tenta di ammucchiare, impilare tutto sotto il lenzuolo che copre il morto. Credo che questa gente sia più numerosa e più forte di quell’altra”.

 
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